lunedì 19 aprile 2010

Lo scudetto del Verona raccontata da una voce MOLTO importante.

Non è vero che i sogni non si avverano mai.
I nostri si avverarono improvvisamente, uno ad uno, nel corso del campionato 1984-85.
A rievocarne oggi le tappe, vien da chiedersi se davvero le abbiamo vissute, o non si tratti solo di un dolce ricordo un po' sfumato, come certi episodi della fanciullezza che si rievocano regolarmente in famiglia a Natale, con l'aggiunta ogni anno di particolari nuovi, e ormai non si sa più se sono accaduti realmente o se ce li siamo costruiti nella mente da noi, anno dopo anno, ripescando sensazioni lontane.

Ma sugli almanacchi del calcio tutto risulta scritto ben chiaro, quindi dev'essere accaduto davvero.
Dei gol e delle azioni più belle restano immagini televisive e fotografie.
Le sensazioni che provammo riaffiorano tuttoggi restituendoci il gioioso stupore di allora: e le abbiamo provate davvero.
Una città intera vibrava dello stesso entusiasmo, e ovunque se ne coglievano i segni con sempre maggiore evidenza.

Alla Scuola Media dove insegnavo quell'anno, i ragazzi portavano in classe i poster gialloblù insieme ai testi di italiano e agli album da disegna. Le pareti della mia aula ne furono completamente tappezzate. Vi si ammiravano nell'ordine: l'Italia fisica, Garella, Ferroni, l'Italia politica, Marangon, Tricella, Fontolan, il corpo umano, Briegel, Fanna, l'Italia dopo il 1848, Volpati, Galderisi, l'Europa fisica, Di Gennaro, Elkjaer, l'universo e i suoi pianeti. Dietro la lavagna facevano distintamente capolino le gigantografie delle riserve: Bruni, Spuri, Turchetta, Donà. Quando entrava il Preside, ossservava compiaciuto il singolare arredamento: non era forse, la sua, una scuola "pilota"?
Le abbiamo vissute davvero, quelle festose trasferte.

Decine e decine di pullman seguivano ovunque la squadra, sventolando le sciarpe dai finestrini e scambiando complici botti di clacson con le mille auto targate VR che li affiancavano nella corsa. Una volta a destinazione, già qualche ora prima della partita essi si disponevano in cerchio nei piazzali adiacenti allo stadio di turno, creando festosi accampamenti e facendo apparire dal nulla colorati bivacchi. Dai portelloni dei pullman uscivano come per incanto marmitte, pentoloni, lunghe tavolate sostenute da agili cavalletti, e poi damigiane, fiaschi, salami, sacchi di pane. Cuochi improvvisati dal cappellino gialloblù si immergevano ridenti nel fumo delle pentole, mescolavano di gran lena entusiasmanti risotti al tastasal, affettavano soffici mortadelle, affondavano rosei cotechini in bollenti ondate di pearà, versavano corposi vini rossi in bicchieri rapidamente "fusilà".
La comune fede sportiva regalava domenicalmente anche il calore della festa, la gioia di aspettare e poi soffrire e poi magari esultare tutti insieme.

E c'eravamo davvero, a Bergamo.
Bastava un pareggio per veder finalmente realizzato il sogno di tutti. Pioveva a dirotto.
Da Verona parti una sorta di esodo, con una fila interminabile di pullman e auto cariche di speranze e trepidazione febbrile.
In Piazza Brà migliaia di ombrelli nascondevano tanti cuori in ansia sotto il balcone di Radio Adige. L'Atalanta andò in vantaggio sul finire del primo tempo. All'inizio della ripresa, in mischia, pareggiò Elkjaer, subito sommerso dagli abbracci dei compagni.
Il cuore prese a battere più forte.

Aspettavamo il novantesimo in un clima rarefatto e un po' irreale, ma felicità e commozione già covavano dentro noi tutti, e ne avvertivamo il caldo tepore farsi largo tra brividi sottili.
Poi ci fu il fischio finale. "Campioni campioni campioni campioni..." gridai mille volte al microfono. Baci, abbracci, lacrime, stupore attonito, felice smarrimento, voglia matta di fermare l'attimo fuggente si mescolarono d'incanto in tifosi e giocatori, insieme a Bergamo e Verona, dove i mille e mille ombrelli si levarono al cielo rivelando sciarpe e bandiere.

Non era un sogno.
E c'eravamo davvero tutti anche la domenica successiva, in Brà, dopo l'ultima di campionato. Io partecipavo allo spettacolo in attesa di presentare uno ad uno i campioni che sarebbero arrivati a conclusione della serata. Li aspettammo cantando gli inni gialloblù e "Palasseto tu mi fai morir".
Arrivarono i giocatori e dalla piazza si levò un assordante indimenticabile urlo di gioia.
Tricella fece spettacolo imitando Jerry Lewis, Galderisi cantò la sua canzone, Briegel intonò un coro tedesco di birraioli e l'allenatore in seconda Lonardi dedicò a Preben "Splendida Copenhagen".
Poi, come interpretando il desiderio della folla, chiesi a Bagnoli di regalarci la grazia di un aperto sorriso. Egli rise di gusto e urlò nel microfono: "Siamo campioni!".
I giocatori lo ripresero in braccio, e la città esplose nel suo grido più alto. 
Roberto Puliero.













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